I numeri dell’emorragia sono impressionanti e in crescita: i dati Istat parlano di 114,000 uscite nel 2016 (e quelli OCSE di 172,000 nel 2017), ma si tratta di dati basati sulle cancellazioni dalle anagrafi nazionali che quindi sottostimano pesantemente il fenomeno, e dovrebbero essere aumentate di almeno 2,5 volte: calcoli incrociati sull’emigrazione reale spaziano da 125mila a 300mila persone
Sempre più giovani, sempre più istruiti
Dal nostro punto di vista, il problema è aggravato dal fatto che il 30% di chi si trasferisce all’estero per lavoro è laureato; i giovani, la fascia dai 18-39 anni, rappresentano il 40%. Quanto al titolo di studi si può stimare, per il 2016, un totale di 34mila laureati e 39mila diplomati
Il problema è farli tornare
La mobilità territoriale e internazionale, di per se, è un fatto positivo, permettendo a un neolaureato italiano di spostarsi e crescere all’estero. Ma è il saldo netto negativo fra entrate e uscite il problema: l’assenza di un controesodo dei professionisti in uscita, a causa della carenza di potenziale attrattivo verso l’esterno. Non c’è ricambio fisiologico di entrate e uscite di talenti, esportiamo risorse formate dal nostro sistema scolastico e universitario con costi notevoli.
Ad esempio nel 2016, complice la Brexit, sono stati 24.788 gli italiani a fare le valigie per il Regno Unito, contro appena 3.363 ingressi dalla Gran Bretagna: un saldo in negativo di oltre 21.400 unità, che si accompagna alle “perdite” a favore di Germania (18.933 nostri emigrati contro 4.616 immigrati, pari a un bilancio di -14.317), Svizzera (11.388 emigrati italiani contro 3.350 ingressi, per un saldo di -8.038) o Francia (10.833 uscite contro 2.083 ingressi, pari a -8.750).
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